FESTA DELLA REPUBBLICA, FESTA DI POPOLO

Pubblicato giorno 2 giugno 2020 - Attualità, Azione cattolica, Formazione, In home page, Mondo

Il contributo (anche) dei cattolici per una memoria dell’essenziale

 

di Pinuccio Frau

 

Per quanto non si sia attenuato il dibattito sulle “raccomandazioni” di Pio XII (papa Eugenio Pacelli) al laicato cattolico perché l’opera da compiere fosse improntata più all’azione e meno all’attesa [1], oggi siamo disponibili ad accettare che il contributo dei cattolici ai lavori della Carta costituente sia stato fondamentale. Sia nella interpretazione delle reali aspettative popolari, sia nella capacità di inserimento, persino nella versione letterale, di princìpi ed assunti già esposti nel Codice di Camaldoli [2], e verificati in un confronto che durò sino alla vigilia del voto del 2 giugno 1946 e poi, in aula, durante i lavori che portarono alla compilazione del testo finale della nostra Costituzione.

Ma il dibattito che era iniziato per la forza, ormai esplosa, dell’antifascismo in tutta la sua colorata complessità, non si indirizzò – come molti ancora credono – solo alla fondazione di una nuova forma dello Stato. Non si trattava, cioè, di discutere se per la democrazia fosse necessaria la forma della repubblica o quella del regno.

Le tesi repubblicane furono certamente più forti, ma non maggioritarie in area cattolica, o almeno non diffuse come si potrebbe pensare. Tuttavia il senso dello Stato fu sempre presente ed è testimoniato dall’impegno che De Gasperi spese perché si orientasse il voto cattolico in senso repubblicano, pure avendo espresso personalmente simpatie monarchiche [3].

Ma la memoria repubblicana cattolica è certamente vivificata dal fatto che nel dibattito che precedette le determinazioni della Costituente, fu presente con concorso di molte voci, la questione femminile, vale a dire la questione che era esplosa in molti paesi europei già prima della guerra e che ora trovava nuove e qualificate suggestioni culturali fortificate dal sentimento antifascista e antinazista.

Se rimaniamo in Italia, la prima volta che le donne furono ammesse al suffragio universale [4] fu nel 1945. Ancora nel Regno d’Italia e subito dopo la cessione dei poteri (non ancora abdicazione) di Vittorio Emanuele III al figlio Umberto ed al governo Bonomi. Ed infatti fu il Decreto luogotenenziale n. 23 del 2 febbraio 1945 ad estendere il diritto di voto alle donne. E rinacquero i Consigli comunali e i Sindaci, le cui prerogative erano state affidate, con gesto paterno del fascismo, ai Podestà.

Non era possibile tornare indietro e le forze apertamente repubblicane e democratiche, vale a dire le forze politiche che si rifacevano alla dottrina sociale cattolica, al liberalismo e al socialismo, trovarono argomenti rigorosi sulla validità del suffragio universale, soprattutto alla luce di quanto, ormai, veniva dibattuto in preparazione dei lavori della Assemblea costituente, che sarebbe stata insediata dopo il 2 giugno.

Il suffragio universale, che comprendesse il diritto delle donne al voto, fu esteso e necessario. Don Sturzo lo aveva compreso nel suo programma politico del 1919, anche se con linguaggio molto pacato e guardingo [5], ma nei mesi precedenti il voto sulla forma dello Stato, caddero tutte le precauzioni letterarie. Un risultato doveva essere raggiunto!

Pur essendo stata costituita l’Unione donne italiane (UDI) che nei primissimi tempi vide la partecipazione delle donne cattoliche, già unite nell’Azione cattolica, prevalse il progetto suggerito da Maria Rimoldi, Presidente nazionale delle donne cattoliche di Ac, che preferì dare forma all’associazionismo politico femminile attraverso il CIF (Centro italiano femminile) garantendo, così, autonomia d’azione e, più ancora, libertà di espressione.

Il punto, però, era un altro. Si voleva non solo una partecipazione all’elettorato passivo (capacità di eleggere ma non di essere elette, ndr), ma una legislazione che ammettesse che le donne potessero, a buon diritto, partecipare al governo dello stato nascente. Questo fu ottenuto con Decreto n. 74 del 10 marzo 1946.

In tutto questo fervore, centrale per rigorosa intelligenza e visione politica, appare Armida Barelli.

Armida-Barelli-783x1024Fondatrice della casa di edizioni Vita e pensiero, cofondatrice con padre Agostino Gemelli dell’Università cattolica del S. Cuore, fondatrice della Gioventù femminile di Azione cattolica e sua Presidente nazionale per lunghi anni, fondatrice dell’Istituto secolare delle Missionarie della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo e dell’Opera della Regalità per aiutare il laicato (tutto) nell’azione liturgica. Vice Presidente nazionale generale nel 1946. Pellegrina nelle diocesi italiane dal 1920 al 1950.

Questa potentissima esponente del cattolicesimo italiano si spese moltissimo perché le donne andassero al voto e, se del caso, si facessero eleggere. Dovette vincere le ritrosie di una cultura succube del maschilismo imperante e che il fascismo aveva celebrato con simboli efficaci.

Parlò con moltissime donne e tante furono testimoni di ospitalità nelle proprie case, nelle Comunità parrocchiali, nei Comuni, dove la sorella maggiore aveva il modo di consultare interlocutori di tutte le tendenze.

Ecco, in questa Festa della Repubblica, questa figura ci è cara. Perché rappresenta bene il nostro attuale sentire l’uguaglianza di genere. Perché questa uguaglianza è dentro la nostra cultura costituzionale. Perché questa cultura deve essere difesa ogni giorno, ogni santo giorno della vita.

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[1] Cf, Storia del movimento cattolico in Italia, Il Poligono editore, Roma, 1976.

[2] Con la definizione di Codice di Camaldoli, si indica un documento programmatico redatto, a partire dal luglio del 1943 (subito dopo la caduta di Mussolini), da un gruppo di intellettuali cattolici coordinati da mons. Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo. Tra i partecipanti, ricordiamo Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, Amintore Fanfani …

[3] Sulla vicenda di papa Pacelli repubblicano e De Gasperi monarchico, esiste un’ampia pubblicistica che in questa sede è difficile riassumere. Le notizie al riguardo, pubblicate in rete, sono degne di attenzione e, per lo più, riferiscono fonti originali dell’Archivio vaticano.

[4] Con la Costituzione concessa nel 1849 la Toscana ammise al voto anche le donne. Così anche la Repubblica romana nello stesso anno, ma ne rimasero fuori per consuetudine (sic!).

[5] Cf. Manifesto del Partito popolare, «non elettrici, non deputatesse, perché è ancora troppa la confusione che fanno gli uomini in Parlamento. La donna deve votare, ma votarsi ad un’alta idealità di bene umano», in numerose pubblicazioni sulla nascita del Partito popolare sturziano.